Fino a qualche anno fa parlare di brand journalism, letteralmente giornalismo di marca, faceva storcere il naso ai più. Il motivo? La sua natura ibrida, non definita, a metà strada tra il giornalismo d’informazione e la pubblicità. Pochi hanno compreso la portata di una grande rivoluzione che stava avvenendo nel mondo della comunicazione. Un brand poteva mai diventare fonte autorevole d’informazione per le testate giornalistiche e per gli utenti della rete, sempre più presenti sui social network? Evidentemente si, e questa cosa ha avuto lo stesso effetto del passaggio dal cinema dal vero, antesignano dei documentari, al cinema di finzione agli inizi del Novecento.

Si sta comprendendo finalmente che un brand, un’azienda o uno studio professionale, o un personal brand, un professionista o un imprenditore, possono fornire informazioni utili e di prima mano su un settore senza per forza essere veicolo pubblicitario. Insomma, se il brand comunica non vuol dire che questa attività debba essere considerata pubblicità e non per questo si debba pagare un’inserzione per ottenere uno spazio di cui il brand con le sue conoscenze e competenze si fa promotore. La pubblicità è un’altra cosa. E va benissimo. C’è e continuerà ad esserci, inserita nei piani marketing delle aziende, ma il brand journalism fa riferimento a un’attitudine differente, intende fare informazione.

Come afferma Daniel Newman di Forbes“il Brand Journalism invece di utilizzare contenuti che promuovono direttamente il marchio attraverso tattiche tradizionali di marketing, si concentra sulla costruzione di storie e altri contenuti informativi che sottolineano il valore da un punto di vista diverso e inedito. Le aziende che utilizzano il Brand Journalism producono interviste, siti Web popolati da articoli di giornale e offrono informazioni giornalistiche a supporto delle offerte di prodotto.

In questo modo viene superato il concetto tradizionale di marketing per approdare ad una nuova dimensione, nel quale il brand vede aumentare la propria reputazione e notorietà grazie alla capacità di produrre contenuti autorevoli e ritenuti interessanti dalle testate giornalistiche e dagli utenti dei canali social network.

Perché questo fenomeno ha subito un’accelerazione durante la crisi del Coronavirus? La maggior parte dei brand, aziende e studi professionali, hanno attivato, non sempre consapevolmente, processi di brand journalism per rispondere a quanto stava accadendo, con l’obiettivo da un lato di fare comunicazione responsabile e dall’altro far emergere le buone prassi attivate a seguito dell’emergenza. I brand si sono inseriti nella narrazione portando il proprio contributo e punto di vista. Hanno realizzato articoli, approfondimenti, webinar e dirette video così da instaurare e/o mantenere un contatto con i propri clienti/utenti, creare un coinvolgimento e di conseguenza accrescere la propria reputazione per gli stakeholeder rilevanti. Non tutti però possono fare brand journalism. È necessario avere senso della notizia e una preparazione che affonda le radici nel giornalismo o una grande esperienza al servizio di aziende e studi professionali. Senza queste caratteristiche è difficile fare la differenza e ottenere risultati in grado di alzare il livello della comunicazione dalla semplice promozione all’informazione di settore.

Durante la pandemia, tutte le organizzazioni hanno compreso di essere molto più di un brand che produce e vende beni o servizi/prestazioni intellettuali. Hanno capito di essere un mezzo di informazione per la propria nicchia di mercato e anche per l’ecosistema mediatico, che ha iniziato a guardarli come fonte di notizie e non solo come marchi che aspirano ad essere pubblicizzati. Un esempio è rappresentato dalle pagine dedicate sui principali quotidiani nazionali e portali web alle case history delle aziende virtuose e solidali, oppure ai professionisti che hanno dato un contributo alla lettura dei vari decreti ministeriali.

Tutto questo è una piccola grande rivoluzione nel mondo della comunicazione. E chissà che da tante monadi leibniziane i brand possano costruire piattaforme mediatiche condivise, ampliando così i canali di informazione a disposizione degli utenti.

Nel marketing delle professioni l’investimento nei contenuti premia sempre.

Di Giuseppe Alviggi